Il problema credo sia stato tutto qui, nella caparbia volontà di volerci raccontare, a tutti i costi, una storia che avesse come protagonisti te, me e quella perfezione che, nella nostra convinzione, avrebbe investito tutto ciò che ci circondava, tutto ciò su cui avremmo messo le mani, che avremmo visto, pensato, organizzato, nominato.
E così ci siamo raccontati le nostre parole, la loro capacità di dire le cose e di indicarle per quelle che erano, nella loro compita liceità, in quella pulizia brillante da argenteria tirata a lucido, un po’ borghese, certo (“ma chi vuoi dia ancora peso a questa parola?”, dicevi) ma comunque evidente, tangibile e, soprattutto, inattaccabile.
Ci siamo detti dei nostri occhi, di quella capacità inesprimibile di guardare le cose per quelle che erano, di riuscire a incassarle in uno spazio preciso, catalogarle in una nostra personale gerarchia, creare una rete di relazione fatta di legami e nodi e scambi che solo noi potevamo decifrare.
Abbiamo parlato dei nostri gesti, della capacità di mettere mano alla farraginosa inconsistenza del mondo e di plasmarla come volevamo, di rifondare le cose e ricrearle semplicemente manipolandole e pensando per loro l’alternativa che nessuno mai aveva individuato, lo scarto dalla norma che solo noi eravamo in grado di supporre.
Tutto ci appariva così perfetto (e così naturale, e così ovvio da risultare a volte banale) che, quando l’illusione che sarebbe stato per sempre – o la certezza che sarebbe stato solo per poco – si è manifestata nella sua geometrica verità, ciò che c’era intorno si è ridotto al sentore volatile e fragile che quella perfezione non era semplicemente la somma di due individualità a cui poter tornare in un futuro privo di unità, ma un’alchimia la cui combinatoria era stata un puro caso da cui eravamo stati, altrettanto casualmente, liberati senza che ce ne accorgessimo o potessimo fare nulla.