Del precariato come déja vu

Fra le cose peggiori di un’esistenza precaria vi è l’impossibilità di porsi in quella condizione nella quale sia consentito esercitare una propria potenzialità discrezionale.
La limitazione del proprio vissuto non si basa più soltanto sulla possibilità o meno di poter “fare” o “permettersi” qualcosa, ma sulla impraticabilità di poter esercitare un pensiero immaginativo che consenta di calarsi in una situazione plausibile nell’ambito della quale operare eventualmente una scelta: non è possibile “immaginarsi una scelta” fra A e B se le condizioni “per cui A o B” sono del tutto precluse e quindi materialmente impraticabili.
Il misurare una plausibilità sulla base delle proprie attitudini o desideri è un esercizio che inesorabilmente, e più o meno volontariamente, viene abbandonato nel corso di quel tempo che, si presume, dovrebbe condurre a una qualche tipo di “maturità”. A quel punto, si percepisce la totale mancanza di senso nell’immaginarsi la realizzazione di qualsivoglia desiderio dal momento in cui, contemporaneamente, si sperimenta l’impossibilità pratica di quella realizzazione.
Conseguenza inesorabile – dal momento che il “futuro” (in quanto proiezione di una eventuale realizzabilità) ha smesso, per molti, di essere una promessa per divenire una condanna – è l’immergersi, bergsonianamente, in un enorme e perenne déja vu in cui lo “slancio vitale” vive solo come vaghezza di memoria.

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