Quando ti ho detto di andare intendevo che avresti dovuto andare via del tutto, e non restare qui come ombra negli occhi, pensiero nella testa, o ferita sulla pelle.
Ciò che volevo era mettere una distanza fra quello che eravamo e abbiamo smesso di essere, così, d’un tratto, senza che nulla si prospettasse o lasciasse presagire l’inevitabile.
Nel momento in cui ho pronunciato quelle parole, sapevo che non mi sarei pentito un attimo, che ormai la questione era scegliere fra te o me, non potendo più darsi un noi che non fosse un eterno conflitto, un costante esercizio di battaglie recalcitranti.
La mia non è stata una questione di difesa, ma di sopravvivenza. Non si trattava più di difendersi dalle piccole meschinità – le tue come le mie – dai sottintesi, dalle ripicche, dai risentimenti che si attorcigliavano come il tubetto del dentifricio che, ironia, per noi non ha mai preso il posto di nessun cliché.
No, la mia è stata una questione di sopravvivenza. Scappare più veloce del predatore, nascondersi nelle tane più buie e irraggiungibili, scalare gli alberi più alti e ciononostante essere sempre all’erta, non abbassare mai la guardia, temere che per un pericolo evitato ve ne fosse sempre un altro pronto a prenderne il posto, ad attaccarmi non appena mi fossi concesso non il lusso quanto il diritto sacrosanto a rilassare per un attimo i nervi, riposare i muscoli. Ed è stata sopravvivenza il tenere a freno il mio risentimento, quella violenza che sentivo crescere dentro e che, prima o poi, mi avrebbe reso insopportabile a me stesso.
Perché il punto era tutto qui, in quel dentro che sentivo tramutarsi in un gomitolo rancoroso, un grumo insopportabile di alterità che, in una sua inspiegabile qualità tentacolare, iniziava a inerpicarsi lungo gli organi, circuendoli con carezzevole lascivia.
Era insomma quel mio stesso mutare a misura del tuo essere, del tuo comportarti, degli accidenti del tuo atteggiarti che mi era oltremodo inviso: una dichiarazione, tanto solenne quanto silenziosa, di sconfitta; il rendersi conto di aver imboccata l’angusta strada di un cambiamento che non volevo (quantomeno non in quei termini e in quei modi), che mi avrebbe portato, con l’inesorabilità di un timer collegato a una bomba, ad esplodere in infiniti minuscoli pezzi che, una volta rimessi insieme, avrebbe dato di me un’immagine destituita di qualsivoglia legame con ciò che di me prima precedeva.