Consecutio temporum

In principio fu il silenzio, una sospensione immemore di giudizio che li avvolse con materna condiscendenza. Di certo, ognuno di loro aveva pensato a quel momento con modi e tempi diversi, percorrendone lo svolgersi sulla base di uno schema preciso, con la presunzione di conoscere in anticipo tutte le mosse dell’altro così come le possibili contromosse. E invece, si ritrovarono coperti da una muta fuliggine di desideri inespressi e rimorsi mal conservati ritenuti con l’avidità di un collezionista per i suoi cimeli, entrambi portando nell’animo una calamità fatta di rimpianti e flutti di vergogne che nel tempo erano venuti macerandosi e adesso stagnavano così, nel fondo, privi di qualsivoglia misericordia.
Erano arrivati insieme venendo da posti diversi e incontrandosi all’ingresso di un locale del centro, dove una cameriera oltremodo cortese, dopo aver chiesto per dovere professionale quanti fossero, li aveva accolti e fatti accomodare per poi servire una bottiglia di vino e sparire. Seduti ai due capi di un tavolo in legno, studiavano i loro visi resi distorti dai bagliori che venivano dalle luci tenute basse. Non c’erano altri avventori, eccetto una donna di cui si scorgeva a malapena il volto nascosto dai capelli che, lunghi e neri, le cadevano sulle spalle e il petto.
Dinanzi a quella bottiglia che prometteva un opportuno torpore nel quale rifugiarsi, i loro sguardi centellinavano un tristiloquio intorno cui si raggrumava l’inverno rendendoli due prede all’erta poco prima del letargo, troppo impegnate a studiarsi da dimenticarsi di fuggire per istinto di sopravvivenza. In quello scartare di pupille, ricontarono tutti gli anni che erano trascorsi, ripercorrendoli ognuno sul viso dell’altro in cerca di somiglianze e differenze, rallegrandosi intimamente per le seconde e liquidando le prime come pure coincidenze fisiognomiche: nessuno dei due aveva intenzione di ritrovarsi d’un tratto in un tic o in un’espressione dall’altro, coscienti che una tale rovina avrebbe significato la disfatta di tutto quel tempo speso a dimenticarsi di essere padre e figlio.
Erano trascorsi troppi anni perché una tale eventualità potesse darsi senza nessuna conseguenza e quindi illustravano con attenta scambievolezza i reciproci incarnati giustificandoli diversamente: entrambi erano così impauriti di riconoscersi che evitavano con cura anche di muoversi in contemporanea, quasi come se nella presa di un bicchiere o nel movimento fatto per sistemarsi sulla sedia si nascondesse l’inganno di tutte le loro convinzioni.
Restarono adagiati in quel silenzio a lungo, tentando per scrupolo di trovare un argomento di conversazione che desse inizio a quello che sembrava dovesse essere il giusto calvario alla loro impunità, a tutti quegli anni spesi riproducendosi nel gioco solipsistico dell’orgoglio, durante i quali non si erano scambiati un saluto, troppo presi a ordinare le vite nel tentativo di dimostrare ognuno per sé che nessuno avesse bisogno dell’altro.
Uno dei due allungò una mano a stringere la bottiglia che si sollevò lentamente, inclinandosi a riempire i due bicchieri, il cui vetro riluceva anch’esso di rossore che in occhi più poetici dei loro sarebbe parso imbarazzo. Il vino gorgogliò in un tono basso e modulato quasi volesse rompere quel mutismo come si fa con un colpo di tosse quando si ha intenzione di presentarsi con discrezione a qualcuno troppo occupato per prestare la giusta attenzione. Alcuni rimasugli di sughero, minuscoli e spauriti, rimasero a galleggiare sulla superficie dei bicchieri e ognuno contò quelli dell’altro, intimamente preoccupandosi nel constatare che fossero in numero uguale.
Incrociarono le mani, ognuno le proprie, poggiandole sul tavolo e si fermarono a osservarle, ognuno le proprie, coscienti di quanto quelle mani fossero sempre state inabili alla compassione. In tutti quegli anni, avevano vissuto l’impossibilità di una pratica degli affetti che fosse anche solo di facciata: una formalità fra consimili che, non potendo evitarsi, tentano con gravoso successo quantomeno di non dichiararsi estranei.
Fra loro non si erano mai contemplati abbracci o strette di mano ma tutto era sempre passato attraverso le parole: nel timore di una incomprensione del gesto, o di una interpretazione che andasse al di là del senso, tutto veniva verbalizzato con cura, nel tentativo di non creare eccezioni alla norma che potessero perturbare il significato di ciò che si voleva, al di là di ogni irragionevole dubbio, esattamente veicolare.
Erano stati sempre saturi di verbo, di una sintassi dall’incedere retorico e senza intoppi che riusciva a dire tutto lasciando sempre da parte il superfluo. Ma a quel tavolo, di fronte a una bottiglia di vino, a vent’anni di distanza dall’ultima volta, sembravano aver perso ciò che li aveva sempre contraddistinti: la capacità di delimitare, attraverso un uso volutamente accorto delle parole, tutto ciò che appariva all’esterno.
Fu evidente per entrambi che nel tempo erano giunti all’irreparabile, al punto in cui la realtà corrispondeva all’ideale solo grazie a una fugace approssimazione, attraverso uno sforzo interpretativo che svelava la propria debolezza nell’impossibilità di rendere a parole tutto ciò che li circondava. Si ritrovavano ora, uno di fronte all’altro, con un tentennare scalzo di parole, addosso cui inciampavano quelle ragioni che un tempo parevano le uniche possibili e che adesso mostravano la propria indefessa cocciutaggine al pari di una giustificazione arrivata troppo tardi.
I bicchieri furono portati alle labbra diverse volte, centellinandone il contenuto per evitare di vuotarli troppo presto, scongiurando così l’eventualità di dover allungare ancora una volta un braccio ad afferrare la bottiglia. Erano rinchiusi in un recinto di consapevolezza fisica che non andava oltre la postura, all’interno del quale si sentivano sicuri da attacchi.
L’ultima volta che erano stati uno di fronte all’altro, spazio per il silenzio non ce ne era stato. Tutt’intorno erano state parole, lanciate con facilità all’indirizzo degli altrui sbagli nella duplice convinzione di essere entrambi, ognuno per sé, dalla parte del giusto. Solo questo ricordavano con certezza: l’inconsulta volontà di averla vinta per il solo gusto di veder perdere l’altro.
D’un tratto cominciò a giungere, dal tavolo accanto, un ticchettio nervoso di unghie sul legno sbrecciato, su cui campavano graffiti resi indecifrabili dall’usura. Quel rumore seguiva un ritmo dimesso, un tre quarti smaltato di una tristezza nera e inevitabile. Sembrava l’impazienza che era la loro, e che prendeva una cadenza estranea adagiandosi fra le dita della donna dai capelli neri, quasi come se lei con loro aspettasse che l’inevitabile si realizzasse.
Quelle battute sembrarono a entrambi il richiamo del tempo che era trascorso e veniva a reclamare il giusto prezzo. Nel suo zoppicare, nella stentorea irregolarità della propria frequenza, suscitava nei due un’ansia sottile che si depositava sotto pelle.
Uno si sistemò meglio sulla sedia, l’altro si passò un dito nel colletto della camicia.
Poi un singulto li fece voltare dalla parte dov’era la donna. Si mossero con una calma forzatamente studiata, una lentezza che lasciò decantare nell’aria quel gemito soffocato.
Ai loro occhi, il volto coperto della donna e l’alzarsi e abbassarsi mal tenuto del suo petto. Le dita avevano smesso di tamburellare, ed ora accarezzavano – indice e pollice –  il calice di un bicchiere che non era mai stato vuotato. L’altra mano passò maldestramente sugli occhi, a tirare via l’unica cosa che poteva presumersi.
I due uomini tornarono a guardarsi e a millantare una calma che nascondeva l’imbarazzo e l’indecisione sul da farsi. Dal tavolo della signora, gli iniziali singhiozzi si erano via via trasformati in un pianto che minacciava d’essere a dirotto da lì a poco se qualcosa o qualcuno non l’avesse fermato.
Entrò in sala la cameriera, per un doveroso giro di convenienza fra i tavoli, e al vedere la donna si bloccò sotto un arco che delimitava l’ingresso, incerta sul da farsi. Guardò i due uomini: di uno ne incrociò lo sguardo e dell’altro la nuca, e il secondo capì dall’esitazione negli occhi del primo che alle sue spalle si dava qualcosa di spiacevole. Trascorso l’indugio, sparì, lasciando i tre a sbrigarsela opportunamente da soli.
Uno dei due tornò a guardare la signora e la vide portarsi una mano al volto e singhiozzare; si mosse come per farlesi contro o attirarne l’attenzione, senza riuscirvi, per poi voltarsi ancora verso l’altro e trovarlo con il viso girato di lato ad osservare una finestra dai vetri policromi su cui i fari delle auto all’esterno creavano barbaglii cromatici dall’ombrosità suadente.
«Non c’è nulla da fare», disse. «È tutto inutile».
L’esitazione del primo trasecolò in un attimo di panico al suono della voce, che si disciolse sull’ultima sillaba lasciando tutt’intorno un’eco soffocante. Quelle parole erano arrivate inaspettate portando con sé tutto il carico dei giorni passati, della violenza fatta alla rabbia per tenerla desta e pronta ad azzannare alla gola quando fosse giunto il momento. Per un attimo aleggiò il dubbio che fossero state scelte accuratamente, coltivate negli anni: un mantra ripetuto tutti i giorni, che avesse ridotto il risentimento a un grumo di consapevolezza sedimentato nel fondo dello stomaco, una livorosa metastasi di sdegno. Allo stesso tempo, dissiparono con un colpo netto e deciso tutta la tensione trasformandola in agonia, nonostante – proprio perché – quel dubbio sulla loro studiata volontà divenne certezza al ricordo che quelle parole erano state – proprio quelle, articolate con lo stesso tono e l’uguale fugace indifferenza – le ultime che fra loro fossero state pronunciate.
«È tutto inutile» ripeté. «Qualcuno le avrà fatto del male».
«A tutto c’è un rimedio, forse parlarle servirebbe».
«Ci sono cose che non si curano e persone che non si salvano».
«Ci sono persone che non vogliono essere salvate, piuttosto».
«Lo fanno per non dover essere riconoscenti. La riconoscenza è troppo gravosa, a volte».
«Come l’orgoglio».
«L’orgoglio è l’unica cosa che resta quanto tutto il resto perde di senso».
«Ammesso che ci sia mai stato un senso».
«C’è, c’è sempre. Basta solo vederlo».
«Basta volerlo vedere».
«È la stessa cosa. Esiste ciò che vedi».
«Non sempre ciò che vedi è ciò che esiste, si può sbagliare».
«Solo le parole non sbagliano».
«Non ne sarei più così sicuro».
I due per un attimo si guardarono e si riconobbero. Le loro voci erano rimaste negli anni invariate, diverse ma simili, dagli accenti uguali e le inflessioni identiche. Il tono grave e gutturale, per quanto si adagiasse su frequenze leggermente sfasate, era il medesimo, così come la vibrazione che propagava nell’aria sinusoidi invisibili. Poi si voltarono all’unisono verso la donna dai capelli neri.
La donna adesso teneva fra le mani un taccuino da cui erano scivolate alcune foto. Di tanto in tanto ancora singhiozzava e il volto le si distorceva in una figura grigia e sofferente che solo la forza di volontà riusciva a tenere a bada, virando l’espressione su fisionomie meno brutali.
«Sarà stata abbandonata, qualcuno l’avrà lasciata».
«Ha lasciato qualcuno, l’avrà abbandonato».
«Non soffrirebbe così, sarebbe diverso».
«Sarebbe esattamente così. L’azione non incide sul sentimento».
«Il fare è misura del sentire».
«Non sono equivalenti».
I due tornarono a guardarsi, scivolando fugacemente fra gli occhi e abbassando lo sguardo ai bicchieri vuoti che furono stavolta riempiti e svuotati con celerità. Schioccarono le bocche e sospirarono i polmoni, come si fosse fra commensali che si riconoscessero reciprocamente una confidenziale informalità. A nessuno dei due sfuggì quella inusitata rilassatezza, il cui svelarsi li fece d’un tratto irrigidire.
Si voltarono di nuovo verso la donna e la videro scrivere su un taccuino, a scatti nervosi, fermandosi di tanto in tanto solo per portarsi i capelli dietro l’orecchio.
«Sta scrivendo una lettera che non avrà il coraggio di spedire».
«Sta semplicemente appuntandosi l’ego da qualche parte».
«Non sai come stanno le cose».
«Nessuno può saperlo, a meno che non ci sia qualcuno a dirglielo».
«Non sempre si riesce a farlo».
«Spesso nemmeno si prova».
«È difficile dire, a volte».
«È doloroso, sempre, non sapere».
La donna lasciò cadere la penna sul tavolo, che rotolò di lato fino a cadere. Poi si adagiò sullo schienale della sedia, e sospirò con gli occhi fissi sulle foto e sul taccuino. I due uomini tornarono a guardarsi ancora per un attimo, ritrovandosi agli angoli della bocca e intorno agli occhi le stesse comuni inflessioni. Uno si concentrò sul bicchiere che aveva fra le mani, nel cui fondo rosso si rispecchiava la volta della stanza, l’altro si volse ancora verso la finestra dai vetri colorati, e scosse il capo a significare una irreparabile mestizia.
«La sua coscienza adesso è a posto».
«È solo per poco, domani sarà lo stesso».
«Non credo».
«È impossibile convivere con certe cose».
«Lo è se sai di essere in torto».
«Lo è comunque, la ragione non concede nulla».
«A volte la ragione è l’unica cosa che ti resta».
«Ma non ci fai nulla».
«Ti adatti, ci fai quel che serve. E ti dai le risposte che non arrivano».
«Senza aver fatto domande».
«Ci sono cose che non vanno chieste».
«Ce ne sono altre che necessitano d’essere chieste».
Ritornò il silenzio e fu lungo e le propaggini di quella quiete si insinuarono con sottigliezza fra i nervi e i muscoli di entrambi gli uomini a suggerire possibilità mai meditate. Nell’incedere stentoreo di quelle parole, era venuto meno l’abbrivio che in principio lasciava presagire un conflitto in cui le stesse parole, ancora una volta, l’avrebbero fatta da padrone: restava ora un sentore di sconfitta, un effluvio bruciaticcio che alitava sugli animi e sui corpi soffocandone le pretese.
I due uomini ancora tornarono a guardare la donna e la videro voltata verso l’ingresso della sala. La sua espressione era mutata e più gentile per quanto non del tutto rilassata, come se i muscoli del volto fossero indecisi su quale espressione deviare. Un sorriso che parve imbarazzato le si allungò sulle labbra, mettendo in mostra una fila di denti bianchi e luccicanti di saliva a giusta complementarietà del rossore di pianto degli occhi anch’essi lucenti. I due guardarono nella direzione in cui la donna guardava, e videro giungere un uomo dal lungo cappotto grigio. L’uomo si avvicinò al tavolo dov’era la donna e raccolse le foto per poi guardarle con una fretta che non era indifferenza. Le sistemò nel taccuino e mise tutto nella tasca del cappotto. Poi allungò una mano verso la donna, e sorrise. La donna ricambiò, brillandole gli occhi, gli diede la mano e si alzò.
Entrambi andarono via, con una leggerezza che per i due rimasti fu un fastidio nelle ossa e un tradimento a quella conversazione che aveva avuto lei – proprio quella donna – a protagonista indiscussa, votandole una considerazione a cui i due non erano tenuti e a cui si erano piegati con la giusta indolenza, la quale lasciò sospesa sul tavolo la certezza, ormai tarda, che sarebbe bastato un solo gesto per abortire quei venti anni, e la consapevolezza che quei venti anni erano tutto ciò che avessero mai avuto e a cui non avrebbero mai rinunciato.
Entrò la cameriera e si recò al tavolo dove fino a poco prima era seduta la donna. Recuperò il bicchiere e, andando via, notò un luccichio provenire dal basso. Si chinò, raccolse la penna caduta alla donna e la guardò controluce. Poi la infilò in tasca e sparì.

Consecutio temporum