A volte mi chiedo come facciano certe persone a vivere, a sembrare così, non dico felici o serene o pacificate, ma così come sono, con quell’espressione che sembra dica che, tutto sommato, le cose potrebbero anche andare peggio, o male, e che quindi, in fondo… Ecco, mi chiedo come facciano quelle persone lì, quelle che leggono e scrivono e studiano, che lavorano d’intelletto, che riflettono sulle cose, le analizzano, le sviscerano, le interpretano; come fanno, dico, a non accorgersi, alla fine, dell’inutilità del tutto, del vuoto nel quale girano, del circo che rappresentano, dell’angolo di spazio per il quale sgomitano – foss’anche per un minuto, per il subitaneo riconoscimento di un ruolo sociale finalmente conclamato, quando si può essere ciò che si vuole gli altri pensino si sia; come fanno a predicare profondità e acutezza senza che nei loro occhi non passi mai – e mai nei loro gesti, nel tono incrinato della voce, in un’ombra sul viso, in un’espressione fuori controllo, in una virgola mal posta – il dubbio inevitabile che l’unica via coerentemente percorribile sia quella della dissoluzione, dell’abbandono, della fine?
O forse quel pensiero lo nascondono in vecchie camere in affitto, dietro armadi sbilenchi che hanno visto padroni e cambi di stagioni susseguirsi senza sosta; nelle macchinette del caffè senza manico, nei piatti sbrecciati, nei bicchieri opachi di calcare, in armadietti stipati di creme scadute, in frigoriferi mai sbrinati, nei batuffoli di polvere sotto al letto, nello stendino arrugginito in corridoio. In una sveglia puntata l’ennesima notte, per ricominciare ancora. Nonostante tutto.
Autore: Giuseppe D'Antonio
Se ti abbraccio
La durata media di un abbraccio tra due persone è di 3 secondi. Ma i ricercatori hanno scoperto qualcosa di fantastico. Quando un abbraccio dura 20 secondi, si produce un effetto terapeutico sul corpo e la mente. La ragione è che un abbraccio sincero produce un ormone chiamato “ossitocina”, noto anche come l’ormone dell’amore. Questa sostanza ha molti benefici sulla nostra salute fisica e mentale, ci aiuta, tra l’altro, a rilassarci, a sentirci al sicuro e calmare le nostre paure e l’ansia. Questo meraviglioso tranquillante è offerto gratuitamente ogni volta che si prende una persona tra le nostre braccia, che si culla un bambino, che si accarezza un cane o un gatto, che si balla con il nostro partner, che ci si avvicina a qualcuno o che si tiene semplicemente un amico per le palle.
[pseudo]Pascal
Il cuore ha le sue ragioni che la ragione ancora se la ride.
Di come gli italiani hanno fatto un golpe
A seguito dell’annuncio di ieri di Napolitano, da più parti, tenendo fede a uno spiccato gusto dell’iperbole tipico di molti commentatori, si è parlato di “Colpo di stato”.
Secondo wikipedia:
Un colpo di Stato […] consiste in un atto violento, o comunque illegale, posto in essere da un potere dello Stato e diretto a provocare un cambiamento di regime. Esso include l’improvvisa deposizione extragiudiziale di un governo effettuato solitamente da un piccolo gruppo del regime esistente, in genere di militari, per sostituire il governo deposto con un altro corpo, sia civile o militare. Un colpo di Stato riesce se l’usurpatore stabilisce la propria posizione dominante e il governo in carica non riesce a sventare il consolidamento del suo potere. Se il colpo di Stato non riesce pienamente né ottiene un successo complessivo, il tentativo di colpo di Stato rischia di condurre ad una guerra civile.
Tre sono gli elementi essenziali di un colpo di Stato:
L’atto illegale secondo le norme del regime vigente, che lo distingue dai mutamenti di regime ottenuti con mezzi leciti;
A porlo in essere sono forze interne al regime; questo lo distingue dalle rivoluzioni, tentate da forze esterne al regime politico vigente;
Lo scopo, consistente nel cambiare il regime […]
Ora, quello di Napolitano non è stato un atto violento, tantomeno illegale (può essere stato “irrituale”, ma non illegale) e non ha cambiato nessun tipo di regime: l’Italia resta una repubblica parlamentare e nessun governo è stato deposto (anzi, è ancora in carica un governo dimissionario, quello di Monti).
C’è poi da considerare il fatto che nel caso il presidente della repubblica avesse, in effetti, attuato un golpe (e quindi commesso qualcosa di illegale e anticostituzionale) avrebbe potuto essere destituito per alto tradimento e attentato alla costituzione. Cosa che non è avvenuta.
Da qui scaturisce una considerazione di carattere logico.
Ammesso che la soluzione di Napolitano sia stato un colpo di stato, va sottolineato il fatto che quella soluzione è stata appoggiata da tutti i parlamentari e i senatori (esclusi, a quanto pare dalle ultime notizie, quelli del M5S). Parlamentari e senatori eletti dal popolo italiano lo scorso febbraio.
Di conseguenza, se c’è stato un colpo di stato, quel colpo di stato è stato “ratificato” da un parlamento composto da eletti che gli italiani hanno votato.
Conclusione: gli italiani, tutti, hanno fatto un colpo di stato.
[pseudo]Berlinguer
Chi ha tanto paghi tanto, chi ha poco paghi poco, e chi ha il mio portafogli, per piacere, almeno i documenti.
Francamente troie
Durante un convegno a Bruxelles, nella sede del Parlamento Europeo, nelle vesti di assessore al turismo della Regione Sicilia, Battiato, riferendosi al parlamento italiano, a un certo punto ha detto: «Farebbero qualunque cosa queste troie qui che si trovano in giro nel parlamento».
Alla frase, sono seguite ovvie polemiche, alle quali Battiato ha risposto con un, ormai, classico “sono stato frainteso”; specificando inoltre che si riferiva a «passate stagioni parlamentari […] caratterizzate dal malaffare politico, dal disprezzo per le donne e per il bene pubblico»; aggiungendo poi che faceva «riferimento alla ‘prostituzione’ che c’era nel Parlamento italiano fino a pochi mesi fa, sia maschile che femminile».
Nella querelle (!) che si è sviluppata a seguito delle affermazioni di Battiato è però sfuggito un punto fondamentale che, facilmente, avrebbe spiegato la reale intenzione espressiva dell’artista catanese.
Mettendo da parte inutili e moralistici peana sull’aberrante abbassamento di tono che il linguaggio politico (anche in sedi istituzionali) ha ormai subito; il conseguente e altrettanto moralistico appunto riguardo a una doverosa quanto auspicabile formale liceità da tenere in incontri istituzionali; e la ovvia considerazione che se al posto di «Farebbero qualunque cosa queste troie qui che si trovano in giro nel parlamento» Battiato avesse detto «Avrebbero fatto qualunque cosa quelle troie lì che si trovavano in giro nel parlamento» in pochi lo avrebbero frainteso (al netto di chi avrebbe comunque avuto da ridire sul “giudizio” riguardo alla passata legislatura), quello che ci preme qui sottolineare è lo scarto semantico che Battiato ha operato nell’utilizzare il termine “troie”.
Come successivamente spiegato dallo stesso neo assessore, il riferimento non era rivolto alle donne, ma “agli uomini e alle donne” che del parlamento e del loro mandato parlamentare hanno fatto mercimonio.
In questo senso, ha ragione Battiato nel considerare travisate le sue parole.
Battiato, uomo di profonda cultura, ha de-genderizzato il termine, femminile, elevandolo a significanza onnicomprensiva di (qualsiasi) genere, modificandone, nel guizzo indignato dell’artista, lo status morfologico e semantico. In questo senso,”troia” smette di essere un semplice sostantivo femminile e viene a configurarsi come un neutro, ad indicare una categoria non più comprensiva di una specifica identità sessuale ma di usi e costumi che accomunano un certo umano genere.
È possibile parodiare il postmoderno?
[La parodia] comporta in ogni caso un volgersi indietro, se pur contrastato e polemico; e nel vincolo che unisce il parodista all’oggetto della parodia è lecito riconoscere la sopravvivenza di un’antica commozione, le tracce di un amore contro cui si lotta, ma che non si può sopprimere: la sopravvivenza delle figure di un mito contro le quali ci si difende, ma che non si possono escludere dalla propria psiche.
La parodia […] nasce nell’ambito di culture che posseggono un passato, alcune forme delle quali non sono più «ritenute possibili», pur suscitando ancora amore […] La parodia, quindi, nasce in quelle particolari circostanze quando si manifesta un sentimento di superiorità nei confronti delle sopravvivenze del passato. L’amore per tali sopravvivenze non consente di abbandonarle, ma la convinzione della propria superiorità induce a servirsene per suscitare il riso
Furio Jesi, Letteratura e mito, Torino, Einaudi 1981, pagine 189 e 195
Consecutio temporum
In principio fu il silenzio, una sospensione immemore di giudizio che li avvolse con materna condiscendenza. Di certo, ognuno di loro aveva pensato a quel momento con modi e tempi diversi, percorrendone lo svolgersi sulla base di uno schema preciso, con la presunzione di conoscere in anticipo tutte le mosse dell’altro così come le possibili contromosse. E invece, si ritrovarono coperti da una muta fuliggine di desideri inespressi e rimorsi mal conservati ritenuti con l’avidità di un collezionista per i suoi cimeli, entrambi portando nell’animo una calamità fatta di rimpianti e flutti di vergogne che nel tempo erano venuti macerandosi e adesso stagnavano così, nel fondo, privi di qualsivoglia misericordia.
Erano arrivati insieme venendo da posti diversi e incontrandosi all’ingresso di un locale del centro, dove una cameriera oltremodo cortese, dopo aver chiesto per dovere professionale quanti fossero, li aveva accolti e fatti accomodare per poi servire una bottiglia di vino e sparire. Seduti ai due capi di un tavolo in legno, studiavano i loro visi resi distorti dai bagliori che venivano dalle luci tenute basse. Non c’erano altri avventori, eccetto una donna di cui si scorgeva a malapena il volto nascosto dai capelli che, lunghi e neri, le cadevano sulle spalle e il petto.
Dinanzi a quella bottiglia che prometteva un opportuno torpore nel quale rifugiarsi, i loro sguardi centellinavano un tristiloquio intorno cui si raggrumava l’inverno rendendoli due prede all’erta poco prima del letargo, troppo impegnate a studiarsi da dimenticarsi di fuggire per istinto di sopravvivenza. In quello scartare di pupille, ricontarono tutti gli anni che erano trascorsi, ripercorrendoli ognuno sul viso dell’altro in cerca di somiglianze e differenze, rallegrandosi intimamente per le seconde e liquidando le prime come pure coincidenze fisiognomiche: nessuno dei due aveva intenzione di ritrovarsi d’un tratto in un tic o in un’espressione dall’altro, coscienti che una tale rovina avrebbe significato la disfatta di tutto quel tempo speso a dimenticarsi di essere padre e figlio.
Erano trascorsi troppi anni perché una tale eventualità potesse darsi senza nessuna conseguenza e quindi illustravano con attenta scambievolezza i reciproci incarnati giustificandoli diversamente: entrambi erano così impauriti di riconoscersi che evitavano con cura anche di muoversi in contemporanea, quasi come se nella presa di un bicchiere o nel movimento fatto per sistemarsi sulla sedia si nascondesse l’inganno di tutte le loro convinzioni.
Restarono adagiati in quel silenzio a lungo, tentando per scrupolo di trovare un argomento di conversazione che desse inizio a quello che sembrava dovesse essere il giusto calvario alla loro impunità, a tutti quegli anni spesi riproducendosi nel gioco solipsistico dell’orgoglio, durante i quali non si erano scambiati un saluto, troppo presi a ordinare le vite nel tentativo di dimostrare ognuno per sé che nessuno avesse bisogno dell’altro.
Uno dei due allungò una mano a stringere la bottiglia che si sollevò lentamente, inclinandosi a riempire i due bicchieri, il cui vetro riluceva anch’esso di rossore che in occhi più poetici dei loro sarebbe parso imbarazzo. Il vino gorgogliò in un tono basso e modulato quasi volesse rompere quel mutismo come si fa con un colpo di tosse quando si ha intenzione di presentarsi con discrezione a qualcuno troppo occupato per prestare la giusta attenzione. Alcuni rimasugli di sughero, minuscoli e spauriti, rimasero a galleggiare sulla superficie dei bicchieri e ognuno contò quelli dell’altro, intimamente preoccupandosi nel constatare che fossero in numero uguale.
Incrociarono le mani, ognuno le proprie, poggiandole sul tavolo e si fermarono a osservarle, ognuno le proprie, coscienti di quanto quelle mani fossero sempre state inabili alla compassione. In tutti quegli anni, avevano vissuto l’impossibilità di una pratica degli affetti che fosse anche solo di facciata: una formalità fra consimili che, non potendo evitarsi, tentano con gravoso successo quantomeno di non dichiararsi estranei.
Fra loro non si erano mai contemplati abbracci o strette di mano ma tutto era sempre passato attraverso le parole: nel timore di una incomprensione del gesto, o di una interpretazione che andasse al di là del senso, tutto veniva verbalizzato con cura, nel tentativo di non creare eccezioni alla norma che potessero perturbare il significato di ciò che si voleva, al di là di ogni irragionevole dubbio, esattamente veicolare.
Erano stati sempre saturi di verbo, di una sintassi dall’incedere retorico e senza intoppi che riusciva a dire tutto lasciando sempre da parte il superfluo. Ma a quel tavolo, di fronte a una bottiglia di vino, a vent’anni di distanza dall’ultima volta, sembravano aver perso ciò che li aveva sempre contraddistinti: la capacità di delimitare, attraverso un uso volutamente accorto delle parole, tutto ciò che appariva all’esterno.
Fu evidente per entrambi che nel tempo erano giunti all’irreparabile, al punto in cui la realtà corrispondeva all’ideale solo grazie a una fugace approssimazione, attraverso uno sforzo interpretativo che svelava la propria debolezza nell’impossibilità di rendere a parole tutto ciò che li circondava. Si ritrovavano ora, uno di fronte all’altro, con un tentennare scalzo di parole, addosso cui inciampavano quelle ragioni che un tempo parevano le uniche possibili e che adesso mostravano la propria indefessa cocciutaggine al pari di una giustificazione arrivata troppo tardi.
I bicchieri furono portati alle labbra diverse volte, centellinandone il contenuto per evitare di vuotarli troppo presto, scongiurando così l’eventualità di dover allungare ancora una volta un braccio ad afferrare la bottiglia. Erano rinchiusi in un recinto di consapevolezza fisica che non andava oltre la postura, all’interno del quale si sentivano sicuri da attacchi.
L’ultima volta che erano stati uno di fronte all’altro, spazio per il silenzio non ce ne era stato. Tutt’intorno erano state parole, lanciate con facilità all’indirizzo degli altrui sbagli nella duplice convinzione di essere entrambi, ognuno per sé, dalla parte del giusto. Solo questo ricordavano con certezza: l’inconsulta volontà di averla vinta per il solo gusto di veder perdere l’altro.
D’un tratto cominciò a giungere, dal tavolo accanto, un ticchettio nervoso di unghie sul legno sbrecciato, su cui campavano graffiti resi indecifrabili dall’usura. Quel rumore seguiva un ritmo dimesso, un tre quarti smaltato di una tristezza nera e inevitabile. Sembrava l’impazienza che era la loro, e che prendeva una cadenza estranea adagiandosi fra le dita della donna dai capelli neri, quasi come se lei con loro aspettasse che l’inevitabile si realizzasse.
Quelle battute sembrarono a entrambi il richiamo del tempo che era trascorso e veniva a reclamare il giusto prezzo. Nel suo zoppicare, nella stentorea irregolarità della propria frequenza, suscitava nei due un’ansia sottile che si depositava sotto pelle.
Uno si sistemò meglio sulla sedia, l’altro si passò un dito nel colletto della camicia.
Poi un singulto li fece voltare dalla parte dov’era la donna. Si mossero con una calma forzatamente studiata, una lentezza che lasciò decantare nell’aria quel gemito soffocato.
Ai loro occhi, il volto coperto della donna e l’alzarsi e abbassarsi mal tenuto del suo petto. Le dita avevano smesso di tamburellare, ed ora accarezzavano – indice e pollice – il calice di un bicchiere che non era mai stato vuotato. L’altra mano passò maldestramente sugli occhi, a tirare via l’unica cosa che poteva presumersi.
I due uomini tornarono a guardarsi e a millantare una calma che nascondeva l’imbarazzo e l’indecisione sul da farsi. Dal tavolo della signora, gli iniziali singhiozzi si erano via via trasformati in un pianto che minacciava d’essere a dirotto da lì a poco se qualcosa o qualcuno non l’avesse fermato.
Entrò in sala la cameriera, per un doveroso giro di convenienza fra i tavoli, e al vedere la donna si bloccò sotto un arco che delimitava l’ingresso, incerta sul da farsi. Guardò i due uomini: di uno ne incrociò lo sguardo e dell’altro la nuca, e il secondo capì dall’esitazione negli occhi del primo che alle sue spalle si dava qualcosa di spiacevole. Trascorso l’indugio, sparì, lasciando i tre a sbrigarsela opportunamente da soli.
Uno dei due tornò a guardare la signora e la vide portarsi una mano al volto e singhiozzare; si mosse come per farlesi contro o attirarne l’attenzione, senza riuscirvi, per poi voltarsi ancora verso l’altro e trovarlo con il viso girato di lato ad osservare una finestra dai vetri policromi su cui i fari delle auto all’esterno creavano barbaglii cromatici dall’ombrosità suadente.
«Non c’è nulla da fare», disse. «È tutto inutile».
L’esitazione del primo trasecolò in un attimo di panico al suono della voce, che si disciolse sull’ultima sillaba lasciando tutt’intorno un’eco soffocante. Quelle parole erano arrivate inaspettate portando con sé tutto il carico dei giorni passati, della violenza fatta alla rabbia per tenerla desta e pronta ad azzannare alla gola quando fosse giunto il momento. Per un attimo aleggiò il dubbio che fossero state scelte accuratamente, coltivate negli anni: un mantra ripetuto tutti i giorni, che avesse ridotto il risentimento a un grumo di consapevolezza sedimentato nel fondo dello stomaco, una livorosa metastasi di sdegno. Allo stesso tempo, dissiparono con un colpo netto e deciso tutta la tensione trasformandola in agonia, nonostante – proprio perché – quel dubbio sulla loro studiata volontà divenne certezza al ricordo che quelle parole erano state – proprio quelle, articolate con lo stesso tono e l’uguale fugace indifferenza – le ultime che fra loro fossero state pronunciate.
«È tutto inutile» ripeté. «Qualcuno le avrà fatto del male».
«A tutto c’è un rimedio, forse parlarle servirebbe».
«Ci sono cose che non si curano e persone che non si salvano».
«Ci sono persone che non vogliono essere salvate, piuttosto».
«Lo fanno per non dover essere riconoscenti. La riconoscenza è troppo gravosa, a volte».
«Come l’orgoglio».
«L’orgoglio è l’unica cosa che resta quanto tutto il resto perde di senso».
«Ammesso che ci sia mai stato un senso».
«C’è, c’è sempre. Basta solo vederlo».
«Basta volerlo vedere».
«È la stessa cosa. Esiste ciò che vedi».
«Non sempre ciò che vedi è ciò che esiste, si può sbagliare».
«Solo le parole non sbagliano».
«Non ne sarei più così sicuro».
I due per un attimo si guardarono e si riconobbero. Le loro voci erano rimaste negli anni invariate, diverse ma simili, dagli accenti uguali e le inflessioni identiche. Il tono grave e gutturale, per quanto si adagiasse su frequenze leggermente sfasate, era il medesimo, così come la vibrazione che propagava nell’aria sinusoidi invisibili. Poi si voltarono all’unisono verso la donna dai capelli neri.
La donna adesso teneva fra le mani un taccuino da cui erano scivolate alcune foto. Di tanto in tanto ancora singhiozzava e il volto le si distorceva in una figura grigia e sofferente che solo la forza di volontà riusciva a tenere a bada, virando l’espressione su fisionomie meno brutali.
«Sarà stata abbandonata, qualcuno l’avrà lasciata».
«Ha lasciato qualcuno, l’avrà abbandonato».
«Non soffrirebbe così, sarebbe diverso».
«Sarebbe esattamente così. L’azione non incide sul sentimento».
«Il fare è misura del sentire».
«Non sono equivalenti».
I due tornarono a guardarsi, scivolando fugacemente fra gli occhi e abbassando lo sguardo ai bicchieri vuoti che furono stavolta riempiti e svuotati con celerità. Schioccarono le bocche e sospirarono i polmoni, come si fosse fra commensali che si riconoscessero reciprocamente una confidenziale informalità. A nessuno dei due sfuggì quella inusitata rilassatezza, il cui svelarsi li fece d’un tratto irrigidire.
Si voltarono di nuovo verso la donna e la videro scrivere su un taccuino, a scatti nervosi, fermandosi di tanto in tanto solo per portarsi i capelli dietro l’orecchio.
«Sta scrivendo una lettera che non avrà il coraggio di spedire».
«Sta semplicemente appuntandosi l’ego da qualche parte».
«Non sai come stanno le cose».
«Nessuno può saperlo, a meno che non ci sia qualcuno a dirglielo».
«Non sempre si riesce a farlo».
«Spesso nemmeno si prova».
«È difficile dire, a volte».
«È doloroso, sempre, non sapere».
La donna lasciò cadere la penna sul tavolo, che rotolò di lato fino a cadere. Poi si adagiò sullo schienale della sedia, e sospirò con gli occhi fissi sulle foto e sul taccuino. I due uomini tornarono a guardarsi ancora per un attimo, ritrovandosi agli angoli della bocca e intorno agli occhi le stesse comuni inflessioni. Uno si concentrò sul bicchiere che aveva fra le mani, nel cui fondo rosso si rispecchiava la volta della stanza, l’altro si volse ancora verso la finestra dai vetri colorati, e scosse il capo a significare una irreparabile mestizia.
«La sua coscienza adesso è a posto».
«È solo per poco, domani sarà lo stesso».
«Non credo».
«È impossibile convivere con certe cose».
«Lo è se sai di essere in torto».
«Lo è comunque, la ragione non concede nulla».
«A volte la ragione è l’unica cosa che ti resta».
«Ma non ci fai nulla».
«Ti adatti, ci fai quel che serve. E ti dai le risposte che non arrivano».
«Senza aver fatto domande».
«Ci sono cose che non vanno chieste».
«Ce ne sono altre che necessitano d’essere chieste».
Ritornò il silenzio e fu lungo e le propaggini di quella quiete si insinuarono con sottigliezza fra i nervi e i muscoli di entrambi gli uomini a suggerire possibilità mai meditate. Nell’incedere stentoreo di quelle parole, era venuto meno l’abbrivio che in principio lasciava presagire un conflitto in cui le stesse parole, ancora una volta, l’avrebbero fatta da padrone: restava ora un sentore di sconfitta, un effluvio bruciaticcio che alitava sugli animi e sui corpi soffocandone le pretese.
I due uomini ancora tornarono a guardare la donna e la videro voltata verso l’ingresso della sala. La sua espressione era mutata e più gentile per quanto non del tutto rilassata, come se i muscoli del volto fossero indecisi su quale espressione deviare. Un sorriso che parve imbarazzato le si allungò sulle labbra, mettendo in mostra una fila di denti bianchi e luccicanti di saliva a giusta complementarietà del rossore di pianto degli occhi anch’essi lucenti. I due guardarono nella direzione in cui la donna guardava, e videro giungere un uomo dal lungo cappotto grigio. L’uomo si avvicinò al tavolo dov’era la donna e raccolse le foto per poi guardarle con una fretta che non era indifferenza. Le sistemò nel taccuino e mise tutto nella tasca del cappotto. Poi allungò una mano verso la donna, e sorrise. La donna ricambiò, brillandole gli occhi, gli diede la mano e si alzò.
Entrambi andarono via, con una leggerezza che per i due rimasti fu un fastidio nelle ossa e un tradimento a quella conversazione che aveva avuto lei – proprio quella donna – a protagonista indiscussa, votandole una considerazione a cui i due non erano tenuti e a cui si erano piegati con la giusta indolenza, la quale lasciò sospesa sul tavolo la certezza, ormai tarda, che sarebbe bastato un solo gesto per abortire quei venti anni, e la consapevolezza che quei venti anni erano tutto ciò che avessero mai avuto e a cui non avrebbero mai rinunciato.
Entrò la cameriera e si recò al tavolo dove fino a poco prima era seduta la donna. Recuperò il bicchiere e, andando via, notò un luccichio provenire dal basso. Si chinò, raccolse la penna caduta alla donna e la guardò controluce. Poi la infilò in tasca e sparì.
La vita non è bella (appunti)
Ne La vita è bella di Benigni quello che viene messo in scena, più che l’orrore dei campi di sterminio, è l’amore di un padre che fa di tutto per risparmiare al proprio figlio quell’orrore, fino ad arrivare al punto di mascherare la realtà, costruirne un’altra ad uso e consumo del piccolo.
In questo tentativo estremo di difesa, c’è qualcosa che lascia un po’ perplessi, ossia la forzata preservazione dell’innocenza (e dell’innocente) dalle storture e dagli orrori. Dinanzi all’indicibile, invece di mostrarlo e tentare di spiegarlo, il padre rinuncia alla sua posizione di maestro ed educatore per diventare complice di un gioco che, al pari di quelli dei bambini, ricostruisce la realtà fingendo che sia altra (e al punto tale che per il bambino diventa effettivamente altro).
Questo tentativo di mascheramento ha come conseguenza ultima il fatto che nel finale (finale in gran parte consolatorio: il padre muore, ma il bambino ritrova la madre), il piccolo esclami “Abbiamo vinto!”. C’è da capire chi sia quel “noi”: lui e il padre (di cui il bambino non conosce la morte)? Lui e la madre ritrovata? L’umanità intera uscita dalla guerra? E soprattutto, cosa si è veramente vinto?
Per quanto ben si comprenda la chiusa speranzosa e ottimista (tipica di un certo Benigni da svariati anni a questa parte ma che nel film risulta un tantino capziosa, quasi a dover di necessità dare una conferma al titolo del film), il tutto solleva comunque una domanda: se, ragionando per assurdo, a tutti i bambini imprigionati nei campi di concentramento fosse stata “mascherata” la realtà al punto da far credere loro che ciò che vedevano era tutto un gioco e che nulla esisteva per davvero, chi, oggi, conserverebbe quella memoria? Non sarebbero forse loro i primi negazionisti?
La malriuscita del film sta tutta in quel voler ridurre una storia (la Storia) all’ottica singola, e singolare, di un regista-sceneggiatore che, nella sua “poetica della bellezza”, costringe tutto all’interno di quel sistema consolatorio dove le contraddizioni si sanano, i contrasti si appianano e le tragedie si risolvono in commedie.
Il fiore e la merda
Nel parlare continuamente di un ex presidente del consiglio e delle sue infelicissime dichiarazioni, c’è qualcosa che continuo a non capire.
È un po’ come se qualcuno andasse in giro con un fiore in una mano e un pezzo di merda nell’altra, e si avvicinasse alle persone mettendo loro sotto al naso il pezzo di merda chiedendo “Lo senti come puzza?”.
Ecco, non sarebbe meglio mettergli sotto al naso il fiore dicendo “Senti che bell’odore”?.